Johnny Sansone (foto Matteo Bossi)

L’edizione numero diciannove, si apre come da copione alle 19:00 precise di giovedì 14 novembre 2013 con Martin Bruendler che introduce il duo acustico (dimensione assente lo scorso anno) composto da Larry Garner e dal chitarrista e cantante tedesco Michael Van Merwyk, piazzatosi secondo all’International Blues Challenge 2013. Si alternano al canto per brani di matrice più cantautorale che blues, poi rendono omaggio alla città del festival con uno shuffle “Going To Lucerne” simpatica in cui coinvolgono all’armonica Rick Estrin e Johnny Sansone. Chiudono con un bel blues dal sapore vagamente hookeriano un concerto piacevole, ma almeno per la prima parte, piuttosto confidenziale e leggero, non scuro e intenso come certo swamp blues di cui Garner sa essere valido interprete.
Di puro mestiere il set di Chicago Blues imbastito da tre habitué di Lucerna, Bob Margolin, Bob Stroger, Kenny Smith, che si alternano al canto di qualche standard con Margolin che si sforza di imitare il suo vecchio boss Muddy Waters. Dopo circa tre quarti d’ora li raggiunge Zora Young la quale però dopo un buon lento iniziale, inanella una serie di brani di grana grossa come “Dust My Broom” e “Got My Mojo Working” da cui è ormai difficile per chiunque spremere ancora qualcosa. Il pubblico apprezza comunque, vero, ma da gente di tale esperienza, che oltretutto ha suonato diverse volte al festival, sarebbe lecito attendersi una prestazione perlomeno oltre il minimo sindacale.
Li seguono sul palco Johnny Rawls & Mississippi Soul Blues, con la di lui figlia Destini ospite alla voce in qualche brano. La band, più che sulla chitarra di Rawls, viaggia bene ancorata al drumming dell’esperto Allen Kirk (ex Magic Slim e Mississippi Heat) e dell’organista Adam Sheets. Rawls ha un impianto soul/blues di buona levatura ma senza picchi, testimoniato da pezzi come “Red Cadillac”; meno convincente l’apporto della figlia alle prese con classici quali “Chain Of Fools” o “Respect Yourself”, da cui poteva trarre ben altre emozioni.

Byther Smith (foto Matteo Bossi)

C’era grande attesa per Byther Smith, semi-ritirato e assente in Europa da diversi anni. Smitty (81 anni) impeccabilmente vestito con un completo e una Stratocaster dalle corde colorate, aveva con sé un buon gruppo, con Anthony Palmer alla seconda chitarra, E. G. McDaniel al basso, Brian Parker batteria e il tastierista Richard Hackley. Chi lo aveva visto almeno una decina di anni fa si è reso conto, di riflesso, che il tempo scorre implacabile e agguanta sovente anche i nostri beniamini, per cui il concerto, seppur molto dignitoso, non ha avuto la intensità di quelli passati. Il suo fraseggio, sempre particolare, si è fatto meno intenso e tende alla ripetizione, i brani sono più standard che suoi, vedasi “Three Hundred Pounds Of Joy” e “Got My Mojo Working”, e la voce è inevitabilmente meno tonante. A metà concerto lo raggiunge anche Zora Young, che sembra ora più coinvolta, rende omaggio a Smitty e interpreta un pezzo del cugino J. B. Lenoir, “Mama Talk To Your Daughter”. Smitty, stanco dopo aver comunque dato con enorme professionalità quanto può, saluta il pubblico e la band conclude con un ultimo brano “Never Make Your Move Too Soon” dal repertorio di B. B. King, cantato dal batterista.
La sera di venerdì 15 inizia con Rick Estrin e i suoi Nightcats, che sono senza dubbio grandi musicisti, ma la loro prestazione a Lucerna è stata al limite dell’autoparodia. Stante infatti le capacità tecniche, nessun dubbio ad esempio sul valore del chitarrista norvegese Kid Andersen, ma quando lo si vede in episodi quasi slapstick o suonare la chitarra con l’iphone, ci si domanda se sia proprio necessario o non si esageri. Quanto alla musica un lato pirotecnico (nel senso letterale del termine per quanto mostrato nel finale) gli appartiene appieno e si passa come in un vortice da strumentali surf ad episodi westcoastiani, molti dei quali inclusi nel loro ultimo CD su Alligator.
The Blues Broads è un ensemble con quattro cantanti riunite di recente per un disco omonimo su Delta Groove, figure con esperienze differenti, due

Tracy Nelson (foto Matteo Bossi)

bianche, Angela Strehli e Tracy Nelson e due nere, Dorothy Morrison e Annie Sampson. Il loro spettacolo, con professionali musicisti di supporto, risulta frazionato e alterna momenti collettivi ad altri con voci guida soliste o alternate. Ognuna ha il suo momento tra i quali la Sampson nella dylaniana “It’s All Over Now Baby Blues”, la Nelson con una tonica “Walk Away”, bello il gospel a quattro voci “Jesus I’ll Never Forget” seguito da “Oh Happy Day” (comprensibile dato che la Morrison era la vocalist nella popolare versione degli Edwin Hawkins Singers) e da “When Something Is Wrong With My Baby” guidato dalla Strehli. Un come eravamo malinconico.
Forse il personaggio di maggior richiamo del festival quest’anno, Bobby Rush, mantiene fede a tutte le aspettative, imbastendo un concerto molto divertente, in cui sin dall’inizio, “She’s So Fine” ha dimostrato di avere personalità e carisma da vendere, cosa oggi sempre più rara. Band che non perde un colpo e a cui basta una occhiata del leader per aggiustare il tiro con due chitarristi che sanno il fatto loro. Sapidi al suo solito gli sketch con le ballerine, particolare la sua versione di “Evil” e dei suoi classici sempreverdi come “I Ain’t Studdin’ You” e “What’s Good For The Goose”. Il pubblico è totalmente dalla sua parte, e a lui bastano pochi soffi d’armonica “blues” per lasciare il segno, ad esempio quando ripropone a suo modo “She’s 19 Years Old” di watersiana memoria. Gran divertimento per tutti, quando spettacolo e musica di livello vanno di pari passo.
Non è facile per nessuno salire sul palco dopo lo show di Bobby Rush, Smokin’ Joe Kubek e Bnois King ci provano dando fondo alla loro esperienza, attingendo soprattutto all’ultimo lavoro “Road Dogs Life” e non, come avremmo sperato al precedente acustico. I pezzi si rifanno ad uno stile rock/blues ormai collaudato (“Big Money Sonny”), con qualche boogie e qualche pezzo più tirato. Ma il ricordo di Rush e la stanchezza cominciano ad avere la meglio.
Deludente il set di apertura di sabato 16 affidato a Pat Wilder, cantante e chitarrista dell’area di San Francisco, leader di una band da bar con l’unica particolarità di avere una violinista a riempire il suono con alcune parti soliste. Il loro repertorio manca crudelmente di personalità, e in più la Wilder sembra abbastanza approssimativa alla chitarra, passando da “Summertime” a “Smokestack Lightnin” a “I’ll Take You There” e “Sex Machine”, senza molto costrutto.
Che Ron Levy fosse un organista di valore lo si poteva dedurre dal suo curriculum. E’ infatti noto sia per i suoi anni al servizio di B. B. King, che per le decine di altre collaborazioni e produzioni per svariati artisti. Qui a Lucerna si è presentato in trio con Julian Vaugh alla batteria e il chitarrista Jeffrey Lockhart per un set di strumentali organistici. Nulla da eccepire sulla competenza tecnica, ma la musica che ne scaturiva ci è sembrata più vicina a certe atmosfere acid jazz che a quelle propriamente blues, anche il lavoro del suo chitarrista va in quella direzione; alla lunga finisce per indurre il pubblico a prendersi una pausa.
Davvero buonissimo il set di James Harman che comincia con un brano solo voce e armonica, poi raggiunto da Nathan James & Rhythm Scratchers, formazione guidata appunto da Nathan James e dalla sua particolare chitarra ricavata da un washboard, con batteria, basso o a volte contrabbasso e un percussionista. Si fanno subito apprezzare sia per senso delle dinamiche che per le sonorità quasi downhome, Harman da artista navigato è molto espressivo all’armonica e Nathan James poi è bravo a costruire le sue parti di chitarra swingante ed economo al tempo stesso, innerva i brani nelle parti ritmiche e dimostra gran gusto negli assolo. Dopo una mezz’ora Harman gli lascia spazio e Nathan propone qualche brano dal suo CD su Delta Groove, come la divertente “Pretty Baby Don’t Be Late” con tanto di kazoo. Uno dei concerti migliori di questa edizione.

Chiude Johnny Sansone armonicista e accordeonista della Louisiana, con batteria, basso e il chitarrista John Fohl per oltre un decennio nei Lower 911 al servizio di Dr. John. L’approccio dei primi venti minuti sconcerta per la scelta di volumi e brani di stampo rock (“Get Started”), tuttavia le cose si sistemano e migliorano nettamente allorché Sansone passa alla fisarmonica e attacca “Poor Man’s Paradise” una splendida elegia per la New Orleans post-Katrina che dava il titolo ad uno dei suoi dischi più riusciti. Seguono altri brani di buona fattura, sempre con la fisarmonica come strumento guida e conditi da qualche assolo di Fohl, in parte tratti dal suo ultimo disco prodottogli da Anders Osborne.

Alessandra Cecala, Veronica Sbergia, Max De Bernardi (foto Marino Grandi)

Buon successo ha riscosso anche la partecipazione al Casineum dei vincitori dell’EBU 2013, Veronica & Red Wine Serenaders, con il sempre bravo Max De Bernardi ai vari strumenti a corda ed i pregevolissimi scambi vocali tra Veronica Sbergia, Max e Alessandra Cecala. La loro musica, come noto, abbraccia le varie tradizioni americane degli anni Venti e Trenta e non solo, in un repertorio scelto con grande competenza e che si allargherà presto con brani autografi. Ci ha impressionato la loro multiformità nel calarsi con disinvoltura all’interno di due spiritual diversissimi come “This Train” (ritmico) e “Precious Lord” (lirico), conservandone intatti le anime originali diverse. Se indimenticabile è la rilettura di “Ambulance Man” della Memphis Jug Band, impagabile è l’inserimento, da parte di Max, di “Bella Ciao” nella pausa concessa dal canto intensissimo di Alessandra Cecala in “Out On A Western Plain”.
Appuntamento all’anno prossimo per l’edizione del ventennale.

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